Il team Onivà nel mondo – Francesca e la Turchia 🇹🇷

Per Francesca quello in Turchia è stato uno di quei viaggi che non ti aspetti, destinazioni tutto sommato vicine che nascondono atmosfere magiche , popoli dal pensiero tanto distante dal nostro e profumi che ricordano civiltà e tradizione lontane.

Continuano le storie del Team di Onivà accanto a quelle dei nostri Viaggiatori. Oggi andiamo in Turchia con Francesca.


La Turchia, paese enorme  e complicato, turchese e arido allo stesso tempo, ci avrebbe accolto in una lunga estate di qualche anno fa con tutte le sue contraddizioni, i suoi gatti troppo magri e i suoi sapori mediorientali, partendo dall’unica città al mondo collocata su due continenti, Istanbul.

Istanbul è un accecante misto di novità e tradizione, di storia e racconti millenarie e di quartieri colorati e popolatissimi. Si parte da Sultanhamet riempiendoci di energie con delle ottime polpette di benvenuto, pronti per l’esplorazione della città: dalla splendente Aya Sofia, alla misteriosa Cisterna Basilica, con mille pesci che nuotano sotto la città per finire nella magica Moschea blu, che ci toglie il fiato dalla bellezza.

Il secondo giorno in città, tra un baklava e l’altro ci inoltriamo nella magia del Gran Bazar, visitiamo l’incredibile Topkaki Palace e il suo Harem dai toni del blu. Oltre il ponte la città cambia faccia e mentre piazza Taksim e Beyoglu vivono una nuova manifestazione di rabbia, ceniamo per due lire (turche) in una locanda squisita.

Il terzo giorno ci aspettano le strade popolari, colorate e fatiscenti nei quartieri occidentali di Fatih, Fener e Balat, pieni di storie incredibili e di salite ripidissime. L’hammam accanto alla moschea più grande di Istanbul ci rimette al mondo in una maniera quasi commovente.

Grazie al traghetto che attraversa il Bosforo, tocchiamo terra asiatica e scopriamo la zuppa di yogurt. Dopo un pisolino all’ombra della moschea, siamo pronti per un viaggio di 12 ore che ci farà risvegliare in Cappadocia.


Il viaggio – abbastanza estenuante – di ore ne dura 15 ma ci fa approdare finalmente in Cappadocia, tra  camini delle fate, la Love Valley e un albergo scavato nella roccia che è un paradiso.


E ancora, 5 piani sottoterra nella città ipogea di Kaymakli e svariati gradini più sù sul castello vulcanico di Uchisar, per finire tra  i canyon color panna e fragola della spettacolare Pigeons Valley.

L’ultimo giorno tra i camini delle fate comincia all’alba, quando più di cento mongolfiere sorvolano la vallata: l’atmosfera è surreale, il tempo si ferma e il sole si alza.

Raggiungiamo su un carretto una fattoria di famiglia, facciamo colazione tra gli alberi di albicocche, visitiamo una vera stone-house e capiamo il perché di tutte queste case per piccioni.Partiamo quindi alla volta di Pammukkale lasciando Goreme con la Cappadocia nel cuore: “un paesaggio né lunare né terrestre, ma dell’altro mondo”; uno dei posti più incredibili mai visitati, mentre il canto del muezzin rimbomba nella vallata silenziosa e il gattino Mustafà non vuole più lasciarci andare.

Un’altra notte in pullman, un’altra alba ed altri 600 km; un villaggio spoglio e decadente ed un albergo kitsch: tutto per le terme naturali più spettacolari mai viste prima. Una montagna di travertino, vasche di acqua portentosa e una hierapolis alle sue spalle.

Si punta a sud. Lasciamo le vasche di travertino, bus per Antalya e macchina direzione Ucagiz, piccolo villaggio di pescatori su una baia silenziosa, di fronte all’isola di Kekova e alla città sommersa di Apollonia. Con noi, una luna arancione e gigante e l’immancabile canto del muezzin. La strada che costeggia la Via Licia ci porta a Kaputas, dove ci aspetta la prima giornata di vero mare e relax. E dato che troppo fermi non ci sappiamo stare, l’indomani salpiamo per la Grecia.

Con venti minuti di barca torniamo in Europa e sbarchiamo a Kastellorizo, la più remota e orientale delle isole greche. Qui cambiano la lingua e l’alfabeto, i colori e il modo di apparecchiare la tavola; niente più thè ma frappè di caffè ghiacciati.

I gatti sono più numerosi e assonnati, per aria c’è odore di taverna e il tempo scorre, lentissimo: nessun canto del muezzin, solo il rintocco delle campane. E questa è la Grecia che venti anni fa fece da cornice al film che mi ha stregato per sempre. [La scritta in fotografia è su un muro accanto ad una taverna, nella piazza dove furono girate parecchie scene del film e fu scritta dalla troupe durante le riprese.]

Dopo un giorno e mezzo a Kastellorizo e avere l’impressione di averci passato l’intera ultima settimana, torniamo in Turchia e ci spostiamo di nuovo verso ovest. Il viaggio prosegue, alle battute finali. La penisola di Datca è stretta e lunga, proprio di fronte all’isola greca di Kos. È mare turchese e montagne verdissime, capre e miele, turismo prossimo allo 0 e turchi in vacanza. Dopo aver passato la giornata tra le rovine del sito di Knidos, sulla punta della penisola, ci regaliamo per la seconda volta una cena nella locanda #1 di Datca: 4 portate, un po’ come mangiare a casa, niente alcolici per poche lire di conto totali.

Dopo il silenzio e la pace assoluta di Datca, il nostro viaggio termina a Izmir, terza città della Turchia: c’è il mare, c’è il traffico, ci sono i taksi gialli e un bazaar gigante con pochissimi turisti. E domani ci aspettano tre aerei, 12 ore di viaggio e due micioni inzuppati dal diluvio romano. 

“Il caffè dev’essere nero come l’inferno, forte come la morte, dolce come l’amore.” [proverbio turco]